Gli occhi bruciavano per il troppo fumo di sigaretta che appesantiva l’aria e creava volute colorate quando passava davanti ai fari viola, fucsia e gialli che illuminavano la pista. Le orecchie annichilite dalla musica assordante ronzavano nel silenzio della notte interrotto dal rumore delle poche auto di passaggio.
L’orologio segnava ore che in giorni “normali”, passavo dormendo. Il venerdì sera, a quei tempi, era ammantato da una sorta di laica ritualità: era il giorno, o meglio, la notte da passare in discoteca; era il buio che si trasformava in un giorno dal cielo ancora nero, sbiadito dai primi raggi del sole e inaugurato con quello che all’epoca chiamavamo trancio di pizza, croissant appena sfornato, panino e che oggi chiamiamo street food.
Ciò che facevo io a Torino il venerdì notte negli anni novanta, lo facevano altre migliaia di persone di tutte le età a qualsiasi ora, in ogni città: si mangiava cibo da strada.
All’epoca, lo street food per eccellenza, sostenuto dall’industria cinematografica che ne ha fatto un’icona, era l’hot dog di New York, quello che nei film metteva tutti i membri della società statunitense sullo stesso piano, dai manager alle casalinghe, dagli studenti ai poliziotti (che, a onor del vero, si dividevano tra hot dog e donuts).
In Italia lo street food è sempre esistito, sin dall’epoca dei romani: ha vissuto di vita propria, è così profondamente radicato nella nostra cultura da essere stato considerato quasi scontato, seppur nell’intendimento positivo del termine. L’attenzione mediatica che ora lo riguarda sa quasi di scoperta dell’acqua calda.
Dal Gambero Rosso alla Lonely Planet, dalla televisione “gastronomica” alla letteratura, tutti ne parlano. Il cibo da strada è diventato un simbolo, un modo di vivere, quasi uno stile.
Quanta importanza ha la crisi economica a proposito di questo fenomeno?
Un’indagine di Coldiretti testimonia che
lo street food concilia esigenze di natura economica con stimoli di origine culturale: non solo risparmio, ma scoperta del territorio.
Credo che le necessità legate al risparmio siano la punta dell’iceberg. In tempi in cui molte persone fanno i conti al centesimo per ciò che riguarda il cibo, le implicazioni psicologiche e morali sono altrettanto importanti e sono diretta conseguenza delle impelenze economiche.
Anche nell’alta ristorazione sembra verificarsi una variazione di rotta che orienta i gusti e le tendenze verso la tradizione: la crisi stimola all’abbandono del superfluo a favore dell’essenziale. Fa nascere desideri di convivialità e condivisione all’insegna di ciò che è basilare e conosciuto. Quando si ha paura per il presente e per il futuro, spesso si sente il bisogno di essere rassicurati da ciò che si conosce e che fa parte della propria identità culturale, non solo a livello locale ma nazionale.
Sono persuasa che il cibo, e in particolare quello di strada, in questo senso abbia un potere “terapeutico” potentissimo. Questo modo di mangiare è immediato, veloce, semplice, privo di sovrastrutture e orpelli; è ciò che conosciamo, che ci identifica, che ci permette di vivere i luoghi che ci appartengono e ai quali apparteniamo attraverso il gesto più naturale e necessario: nutrirci.
Ancora Coldiretti afferma che l’estate 2013, attraverso lo street food, è stata fondamentale per identificare le tendenze alimentari degli italiani in tempi di crisi economica: “Ad essere preferito al 45% […] è il cibo locale che va dalla piadina agli arrosticini fino agli arancini, mentre il 24% predilige quello internazionale come gli hot dog e solo il 4% sceglie i cibi etnici come il kebab, in netto calo rispetto al passato.”
Ciò che rende la diffusione dello street food fondamentale è proprio il suo valore culturale. Chioschi, camioncini viaggianti o stanziali, banchetti, stand fieristici, botteghe offrono le tipicità del territorio che da sempre caratterizzano e identificano la cucina italiana che ha vissuto di vita propria anche lontano dalla luce delle stelle che illuminano blasonati ristoranti. Piadine, panini con la porchetta, arancini, bombette, gofri, olive ascolane, pesce fritto, focacce, farinata, raccontano la storia dell’Italia che non sta seduta a tavola, ma nemmeno nei templi dell’alta ristorazione. Questi cibi schietti e autentici rappresentano l’anima della strada, identificano un momento intimo come quello del pasto che si contrae nei tempi, ma che si dilata negli aspetti sociali e culturali.
Lo street food è al contempo conferma delle nostre origini e scoperta del territorio: secondo la guida dedicata di Lonely Planet
La strada è il luogo in cui si incontra il cuore gastronomico di un paese. Nel cibo di strada c’è il sapore di un luogo nella sua forma più immediata e autentica: per essere come uno del posto devi mangiare come lui.
Secondo alcune stime, due milioni e mezzo di persone nel mondo, ogni giorno, si nutrono con questo tipo di cibo (dato FAO).
Lo street food è oggetto di attenzione da parte di esperti del settore gastronomico, ma anche antropologi. Coldiretti sostiene che
Bisogna considerare che essendo il cibo di strada legato, nella maggior parte dei casi, alle tradizioni culinarie del territorio è l’unica forma di ristorazione meno soggetta all’influenza delle mode gastronomiche e alla distorsione delle ricette tipiche.
Quest’affermazione è certamente rassicurante, ma l’attenzione dedicata allo street food e il successo mediatico che lo riguarda, per quanto tempo ancora non inficeranno la sua stessa natura e i suoi significati? Grandi chef si sono confrontati con questo modo di mangiare, i format televisivi si moltiplicano, guide e libri a tema spopolano: quanto è sottile il confine tra informazione e alterazione, tra conservazione e manipolazione? Che cosa è cibo da strada e che cosa non lo è?
Venerdì scorso ho visitato Cheese, la manifestazione dedicata all’arte casearia a livello mondiale che si svolge a Bra. Quest’anno, oltre ai formaggi, l’attenzione era dedicata alle birre artigianali e allo street food. Piadine, bombette, farinata, hamburger del territorio, fino alla pasta fresca tipicamente piemontese: gli agnolotti. Mi sono chiesta se questo genere di cibo, preparato e consumato nelle case dei piemontesi da generazioni, capace di svelare l’identità di una famiglia prima ancora che di una regione, possa essere adatto alla strada. Gli agnolotti sono il cibo delle feste e della domenica, profumano le cucine con intensi sentori avvolgendole in calde nuvole profumate, riuniscono le famiglie e raccontano la loro storia. È possibile estendere e dilatare questi concetti rendendoli adatti alla strada?
È anche vero che una delle caratteristiche fondamentali del cibo è la capacità di far convivere tradizione e innovazione, storicità e flessibilità. Oggi accanto al cibo da strada classico e storico, stanno nascendo versioni “innovative” dello stesso: a Torino, ad esempio, esiste un locale dove si possono comprare patate farcite nei più differenti modi e in giro per l’Italia non è difficile trovare luoghi dove consumare piatti vegetariani e vegani, frutta o frullati, alternativi alle proposte tradizionali, più impegnative dal punto di vista calorico e nutrizionale.
Mentre riflettevo sugli street-agnolotti, gustavo una fetta di farinata appena sfornata (come ha detto un amico, “Paola Uberti non poteva non scegliere la farinata…”) e mi guardavo attorno. Persone di tutte le età, famiglie, gruppi di amici, persone in giacca e cravatta, standisti, addetti stampa: tutti mangiavano il cibo di strada. Alcuni in piedi, altri seduti sulle panchine all’ombra degli alberi, altri attorno a tavolini improvvisati, altri ancora seduti sugli scalini dei marciapiedi. Era bello, romantico, conviviale, rasserenante: il cibo confermava il suo immenso potere comunicativo. Ed io? Beh, io ero felice.