Ci sono posti che ti entrano dentro, oggettivamente belli e soggettivamente affascinanti. Otranto è uno di quelli per me.
Mare, spiagge, il calore della gente. La pietra leccese ricca di storia e tradizioni. I cocktail di frutta fresca, mentre il Castello si specchia nell’acqua insaporita dalla luna. L’etichetta di Albano sul vino venduto tra un souvenir e l’altro, vicoletti stretti con scorci mozzafiato. Insomma, non ci vivrei ma appena posso ci ritorno e ogni volta la riflessione è la stessa.
Gridando ad alta voce SI all’integrazione, con estrema tristezza e assoluto dissenso per il razzismo e tutte le forme di violenza, per me che fondamentali sono gli odori legati ai ricordi, mi chiedo: ma perché nel centro storico di uno storicissimo paesino italiano del Sud Italia tutto dev’essere invaso dall’odore del kebab? Ma perché io se vado in Tunisia sento l’odore del ragú tra i tappeti?
La cucina è un libro aperto e in quanto tale tutto è cultura, tutto è esperienza, ma l’esperienza dell’importazione dobbiamo proprio riprovarla ovunque? Dobbiamo avere la possibilità di mangiare tutto ovunque? Cioè è normale che l’odore di Otranto che io devo ricordare è quella del Kebab? Io non sono d’accordo. E attenzione, non ce l’ho col kebab, non mi dispiace nemmeno, forse ce l’ho con la mancanza di attenzione con chi dovrebbe salvaguardare e valorizzare un patrimonio enogastronomico invidiabile in tutto il mondo e che invece lo considera troppo spesso scontato, strumentalizzandolo all’occorrenza senza capirne l’effettivo valore e potenzialità.